Tra qualche giorno inizia il lungo ponte di Ognissanti e per questo oggi vogliamo regalarvi la parole di Luigina Zai, la nonna dell’attuale proprietario de La Cà Nova, Marco Bellero. Il testo che segue, tratto dal libro “Piemonte nel cuore e nella memoria”, è un po’ lungo per la blogosfera, ma se avete 10 minuti di tempo leggetelo, è davvero molto bello e avvincente. Buona lettura e buon ponte!
AL DI’ DI SANT – Il giorno dei santi
Novembre è il mese che più di ogni altro riporta la memoria ai nostri morti con le visite ai cimiteri, luoghi densi di rimembranze e con un pensiero al cielo, che si fa ricordo e mistero.
Sono andata per la prima volta al piccolo cimitero del paese all’età di sei anni, quando ho iniziato a frequentare la prima elementare: incominciare la scuola per i bambini di un tempo lontano significava incontrare e conoscere il mondo esistente oltre la casa o cascina, luoghi che avevano custodito e protetto, fino ad allora, la propria infanzia.
Ottobre finiva in un tiepido pomeriggio di sole; l’indomani, giorno di vacanza, era il primo di Novembre, al dì di Sant. A quei tempi uscivamo da scuola alle quattro pomeridiane, non c’erano campanelli ad annunciare la fine delle lezioni ma solo le parole della maestra che, dopo uno sguardo all’orologio, ordinava: “Ritirate i quaderni”; poi in piedi per la preghiera ed il canto finale.
Il sole era ancora alto nel cielo ed io e mia cugina, come d’abitudine, corremmo accanto ai fratelli che avevano il compito di rimanerci vicini ad ogni ritorno, ma non tornammo subito a casa quel giorno, perché era il periodo per andare al cimitero a vedere rangià i mort (aggiustare le tombe ).
Ancora piccole ed intimidite per i pochi giorni di frequenza scolastica, seguivamo il gruppo dei più grandi che, spensierati, chiacchieravano fra di loro e mi sentivo anche un po’ impaurita al pensiero di cosa avrei potuto vedere perché la parola cimitero collegata ai morti mi procurava sempre un po’ di ansia e di disagio.
Arrivati al cancello del camposanto il sorridente gruppetto di scolari si fece serio; mio fratello con il cugino Prospero nel varcarlo si tolsero il berretto e, memori degli insegnamenti e delle raccomandazioni dei familiari al fine di portare un grande rispetto per quel luogo, si inoltrarono parlando a bassa voce. Noi seguivamo i più grandi mentre si aggiravano disinvolti e sicuri fra le lapidi e le croci piantate a terra ed osservavamo le persone intente ad ordinare e ornare le tombe dei loro defunti; ma ciò che più mi colpiva era l’odore acre emanato dai crisantemi, così forte da pervadere tutto quel luogo e da farmi pensare che fosse l’odore dei morti.
I crisantemi dei miei tempi dai piccoli fiori con tenui colori che si chiamavano al fiu di Sant ( i fiori dei Santi ), hanno poco o nulla in comune con quelli dei nostri giorni, nemmeno l’intenso profumo. Oggi i crisantemi grazie ad incroci e selezioni sono diventati fiori elaborati nelle forme e nei colori, a volte talmente grandi da sembrare dei palloncini: coltivati in vasi o nelle ciotole si trasformano in enormi, variopinte composizioni.
Da bambina quando visitavamo i cimiteri nei giorni dei Santi osservavo stupita le tante persone arrivare con fasci di quei semplici fiori dall’odore penetrante, cresciuti a cespugli al limitare degli orti. Allora le tombe in muratura erano rare e costruite con le facciate a forma di chiesetta o di tempietto, chiuse da pesanti cancelli in ferro e con un piccolo altare all’interno; le loro scure vetrate ricoprivano con un velo di penombra le piccole lapidi anch’esse di marmo scuro su cui erano incisi i nomi dei propri cari, a ricordarne la memoria in un alone di mestizia.
Essendo poche le tombe vere e proprie, il terreno al centro del cimitero era cosparso di lapidi e croci testimoni delle tante sepolture avvenute nel corso degli anni: là, in quei giorni, le persone ripulivano le zolle dalle erbe cresciute indisturbate nel corso dei mesi zappettando il loro piccolo quadrato di terra.
Noi scolari giravamo fra quegli spazi che sembravano essersi trasformatati in aiuole fiorite e vedevamo arrivare le donne con in testa fazzoletti ed indosso abiti scuri, mentre qualcuna con il volto mesto si asciugava gli occhi accostandosi ad una piccola tomba. Che fosse quello il luogo del dolore l’ho capito per la prima volta vedendo una bambina del gruppo, ma di un’altra classe, dirigersi ad una croce e fermarsi piangendo in silenzio. Noi un po’ distanziati ed immobili osservavamo le sue lacrime cadere su un mazzetto di fiori ai piedi del legno su cui erano incisi un nome ed una data: ma io non sapevo ancora leggere. Da quel pianto sommesso e quasi rassegnato un’altra compagna, forse una vicina di casa, la distolse e prendendola per mano le mormorò di andare a casa, quindi da sole si avviarono al cancello di uscita. I Più grandi del gruppo ci informarono poi che la bambina, una forestiera, era giunta in paese l’anno prima con la mamma già ammalata ed in seguito deceduta. Nessuno di noi seppe dirle una parola di coraggio od offrirle un abbraccio di conforto; forse eravamo troppo piccoli per manifestare i nostri sentimenti o non avevamo ancora imparato a condividere il dolore. Rammento solo di essermi sentita stringere il cuore per quello che avevo visto e saputo, e provavo profonda tristezza per la scolara che non aveva più la mamma a cui correre incontro per raccontarle qualunque avvenimento del giorno, anche solo di aver perso un bottone, rotto le calze o preso un bel voto come facevo io con la mia. Per lei l’ala protettrice della mamma non c’era più, rimaneva solo quella croce a ricordare la sua presenza di un tempo.
Mio fratello visitando il camposanto si soffermava sempre, e noi dietro di lui, ad osservare le persone che con tanta pazienza e vera maestria adornavano le tombe dei loro sepolti. Giungevano donne con grandi involti di quei fiori che nulla costavano e ne staccavano uno ad uno il fiore dal gambo, poi si chinavano sul piccolo rettangolo di terra fresca e pulita ed in base alla quantità disponibile ricoprivano il terreno trasformandolo in un tappeto colorato, oppure ne delimitavano solo il contorno disegnando una croce al centro o un grande cuore riempito dei rossi, cupi crisantemi dei miei tempi. Sempre Vincenzo ci faceva notare gli ornamenti più belli traducendoci le grandi parole che qualcuno con i fiori aveva composto sulla nuda terra: PAX e REQUIEM.
Fra i ricordi di quei lontani giorni dedicati ai morti e così diversi dagli attuali, uno mi ha sempre accompagnato con tanta tristezza. Ero già grandicella, giunta quasi alla fine della scuola e quel pomeriggio della vigilia di ognissanti, come al solito, facevamo in gruppo il giro del camposanto. Diverse persone si attardavano ancora ad ornare le loro tombe fra le quali una mi colpì in modo particolare: era un quadratino di terra con a capo una piccola croce bianca dove un bambino di nove o dieci anni stava disegnando un angioletto con le corolle di crisantemi bianchi che la mamma, tenendo nel grembiule, gli passava uno ad uno. Noi sapevamo della morte di un bimbo mancato pochi mesi prima, e vedevamo il dolore sul volto della donna la quale, a capo chino senza volgere lo sguardo ad alcuno e senza parole, porgeva i fiori al figlio che da piccolo artista si cimentava a raffigurare in quell’angelo bianco il fratellino sotto sepolto. Quando l’ebbe terminato cinse come in una cornice il piccolo quadrato con gli stessi crisantemi, quasi a proteggere quella testina bianca che sormontava due candide ali incrociate. Prima di allontanarsi mamma e figlio rimasero qualche momento ad osservare la piccola tomba, poi ella con la mano mandò un bacio verso quell’angelo a terra lasciandovi ancora cadere qualche lacrima, quindi mesti e muti si avviarono al cancello. Anche a noi era passata la voglia di parlare e tutte avevamo gli occhi lucidi dinnanzi alla visione della morte di un bambino.
Ai tempi della mia infanzia la festività dei Santi insieme con il giorno dedicato ai morti erano molto sentiti. La famiglia prima, e le maestre dopo, ci insegnavano e ci inculcavano il rispetto per quel sacro luogo raccomandandoci di conservare sempre la memoria verso i nostri defunti, e per questo in quella ricorrenza ci facevano studiare le poesie dedicate da tanti poeti ai morti: fra tutte rammento in particolare le liriche del Pascoli pervase di tristezza e di dolcezza insieme.
Ai primi di novembre ricorreva anche l’anniversario della guerra del 1915 – 18 e le nostre insegnanti portavano le scolaresche al monumento dei caduti ed anche al cimitero; poi, tornati in classe oltre al commento ci facevano svolgere temi e disegni sull’argomento, e penso che per noi della vecchia generazione la scuola di allora ha contribuito a conservare profondamente il senso della memoria.
In chiesa si pregava e si commemoravano i defunti con celebrazioni di fede e di speranza nella vita eterna ed era usanza nel pomeriggio della festività andare in processione al camposanto, luogo in quella circostanza ordinato, pulito e pieno di gente che, a gruppi con famiglia e parenti, sostavano durante le funzioni del sacerdote accanto ai loro cari. Non c’erano fiori sgargianti o i lucidi marmi del giorno d’oggi ma anche sopra le antiche ed abbandonate tombe qualcuno depositava sulle croci arrugginite o sulle lapidi spezzate un fiore, ed ognuna aveva un lumicino acceso con qualcuno inginocchiato a pregare.
Una consuetudine ormai scomparsa, era quella di portare in quel giorno i ritratti dei propri morti: grandi, di forma quadrata od ovale, racchiusi in nere cornici ed esposte sugli altarini dei sepolcri o dinnanzi alle lapidi per terra, se c’era bel tempo, e noi bambini ci fermavamo a guardare e a domandare chi fossero. Oggi invece ogni lapide porta infisso il ritratto del defunto racchiuso dentro una minuta lucida cornice, continuativamente.
Forse, per le famiglie vedere esposta la fotografia dei propri congiunti dava l’impressione di un loro ritorno, soprattutto se i ritratti erano di giovani soldati che riposavano in cimiteri lontani o tornati in una bara. Anche a casa mia c’era un grande quadro con la fotografia del fratello di mio padre, zio Cesare, vestito con la giubba da soldato che ogni anno veniva portato al cimitero.
La granda, sua madre nonché mia nonna, aveva ottenuto il rientro del figlio caduto in guerra ed aveva, con gli altri figli rimasti, fatto costruire la tomba nel nostro cimitero. Era andata proprio lei nel camposanto della città per scegliere fra le tante costruzioni quella che le sembrava più idonea da usare come modello: un tempietto con due colonne ai lati e sul frontespizio un angelo di pietra ad ali spiegate. Ma una volta finita non volle mai andarla a vedere perché, affermava, di lì a poco l’avrebbe vista per sempre.
Essendo molto anziana nonna Prospera non usciva più di casa però, finchè visse, fu sempre attenta a nulla tralasciare in quei giorni dedicati alla memoria dei defunti raccomandandoci per il futuro di non trascurare la tomba di famiglia e di mantenerla sempre in ordine evitando i fiori dai colori troppo vistosi: trasmettevano sentimenti di festa per i vivi, ma non per coloro che non c’erano più.
In fondo all’orto ed in disparte forse per quell’odore acre e pungente, la granda coltivava due grossi cespugli di crisantemi, uno di colore bianco e l’altro violaceo che ogni anno si ricoprivano di una semplice, naturale ma copiosa fioritura. Nel giorno dei Santi due mazzetti bianchi venivano posti sull’altarino per le sue bambine morte, mentre al centro del pavimento fra due lumini, un vaso di fiori viola ricordava tutti gli altri familiari defunti.
Attualmente in un mondo in cui tutto è cambiato anche la ricorrenza dei santi non è più vissuta con i sentimenti di una volta, ed anche l’aspetto dei cimiteri è mutato. Accanto alle antiche, scure tombe che sembravano piccole chiese per i tanti fregi religiosi, sorgono costruzioni moderne dalle forme lineari, ricoperte di pregiati marmi, con vetri di cristallo trasparenti ed iscrizioni di lucido metallo sulle pareti. Ma ciò che più sconcerta noi anziani è la mancanza di quel clima di serietà, quasi di mestizia che si respirava una volta. Con la profusione di fiori di ogni forma e sfumatura che riempiono gli spazi e ricoprono le tombe, con l’avvento di enormi composizioni e grandi mazzi ornati da nastri e nodi colorati, regna nell’atmosfera e si riscontra nel comportamento di tante persone un clima più di festa che di afflizione.
Le piazze ed i parcheggi straripano di macchine e di gente che in poco tempo si spostano da un luogo all’altro; parenti e conoscenti si incontrano e si fermano a parlare e a chiacchierare, a guardare e a commentare più che a ricordare, e sempre meno c è chi si in ginocchia a pregare.
A cancellare la poca tradizione rimasta, ad allentare nei giovani il ricordo ed il senso di rispetto per le festività dei defunti tanto radicate in tutti noi nel passato, giungono dall’America altre usanze, altre forme di celebrazioni che nulla hanno in comune con le nostre, e che urtano la sensibilità dell’anziano. Festeggiare Hallowe’en con comportamenti e maschere stravaganti in quella notte che per noi era di ricordo e di preghiera, mi fa pensare ad un anticipo di macabro quanto inopportuno carnevale !
Dietro l’alta collina il sole tramontava allungando un’ombra scura sul cimitero che silenziosamente si svuotava: la funzione era finita, la gente tornava alle proprie case e nella sera che scendeva, mesti rintocchi di campane ci ricordavano che l’indomani era il giorno dei morti. La tradizione di allora richiedeva tutta la famiglia riunita alla sera per la recita del rosario, e nessuno, giovane od anziano che fosse, doveva uscire per le strade perché vigeva la credenza che in quella notte i morti tornassero a rivisitare le loro case.
Ricordare le festività dei Santi vissute nell’infanzia con la presenza della granda figura per noi centrale, rammentare quelle sere ricche di particolare fascino per i racconti di memorie antiche, ancora adesso mi commuove. Sotto la cappa del camino il fuoco era ben acceso e dentro la grossa pentola le castagne bollivano adagio; la cena era finita e la granda che solitamente si alzava per prima per salire alla sua stanza, quella volta si dirigeva alla stalla. Prima però si rivolgeva alle nuore già intente a sparecchiare raccomandando loro di mettere a bagno i ceci ed il merluzzo per l’indomani, perché il giorno dei morti era di magro con la zuppa di ceci a pranzo e pulenta e marlüc (polenta e merluzzo) alla sera. Poi uno sguardo alla tavolata e due parole: andumma fiöi,(andiamo ragazzi) e tutti la seguivano. Intorno al tavolo, nella stalla, erano poste alcune sedie: lei ne prendeva una e girando lo schienale vi si appoggiava con accanto noi bambine e le nostre madri; dietro gli uomini ed i ragazzi inginocchiati sulle balle di paglia. Prima di iniziare il rosario la nonna prendeva dalle sue tasche delle vecchie coroncine fatte con grani di semi o di legno lavorato che ancora mi sono impresse nella mente e che il cuore rimpiange di non avere conservate. Ne distribuiva una a tutte noi a cui bastava averle fra le mani ed anche senza sapere far scorrere quelle noccioline, rispondevamo tutti in coro al suo sgranare di Ave Maria.
Non era mai lungo il suo rosario: un giro della grossa corona ed alla fine, quasi a farli ancora sentire presenti in mezzo a noi, qualche requiem in più per al povar Cesar (il povero Cesare, il figlio caduto) e per al povar grand (il nonno ), suo marito. All’ultimo amen i ragazzi più grandi correvano al camino e, staccata dal gancio la pentola piena di castagne, le colavano in un grande catino di terracotta, di quelli smaltati a chiazze verdi e gialle che si usavano allora e fumanti le portavano al tavolo della stalla. Eravamo dieci bambini e cinque adulti e non tutti erano ugualmente svelti nel prendere e mangiare, così ella per amor di giustizia desiderava che le castagne venissero ripartite. Andavamo allora in cucina a prendere ognuno il piatto di ferro smaltato di grigio usato giornalmente dove i maschietti, passando con il grosso recipiente pieno, ne depositavano una per volta a ciascuno finchè il catino rimaneva vuoto.
I piatti erano pieni anche quello della granda, però lei non mangiava; dopo averne assaggiata una o due si alzava e con il suo recipiente in mano ci dava la buonanotte aggiungendo: “Queste le metto sopra l’arca, sono per i miei morti”. L’arca era la madia su cui si impastava il pane, posta sotto la finestra della cucina ed ella continuava l’usanza di lasciare, in quella notte, un piatto per i morti. Mangiavamo adagio le castagne rimanendo quieti, poi restavamo ancora un poco ad ascoltare gli adulti che parlavano fra di loro con tono sommesso ricordando le persone ed i fatti dei tempi passati. Poco dopo le mamme rivolgendosi a noi della scuola ci rammentavano che il giorno successivo anche se era vacanza ci dovevamo alzare presto per andare in chiesa, e ci mandavano a dormire.
Ma l’indomani a svegliarci di buon’ora erano per prime le campane che, riempiendo l’aria con gravi e mesti rintocchi, annunciavano le funzioni per i morti. Le mamme allora entravano nelle stanze per farci velocemente alzare perché, dicevano, dovevano rifare bene i letti quel mattino per accogliere le anime dei morti che sarebbero ancora ritornate nelle loro case a riposare.
Quando pioveva la chiesa era frequentata da molta gente, ma con il bel tempo ci si ritrovava solo noi bambini insieme con gli anziani in quanto gli altri familiari dovevano occuparsi delle semine essendone quello il periodo, ed il giorno dei morti diventava lavorativo. Tutto era lugubre in chiesa in quella circostanza: i paramenti profilati di nero, il catafalco steso in mezzo alla navata e ricoperto da un nero drappo frangiato e circondato da candele, i canti invocanti il riposo eterno, le prediche che invitavano alla riflessione ed alla meditazione sulla brevità della vita. Ma se le funzioni di questo giorno con i continui richiami alla morte mi riempivano di tristezza, mi hanno anche inculcato un profondo rispetto per il sacro, ed una riverente accettazione del mistero dell’aldilà.
La sera del due novembre era ancora dedicata alla preghiera ed alla memoria e per la seconda volta in ossequio alla tradizione non si doveva uscire, perché tanti erano i racconti di fatti strani e paurosi che in quella notte succedevano, soprattutto a scapito dei trasgressori. Anche allora però la gioventù non sempre resisteva al richiamo di qualche divertimento ed i più spavaldi o noncuranti delle usanze uscivano ugualmente dalle case, magari fra il biasimo dei familiari e dei benpensanti. Ed allora intervenivano i soliti burloni che si divertivano a spaventarli e, per dare una lezione alla loro mancanza di riguardo, organizzavano brutti scherzi trasformati poi dala fantasia popolare in avvenimenti inverosimili.
In casa sentivo raccontare come alcuni i giovani nella sera dei morti passando davanti al cimitero avessero visto bianche figure aggirarsi fra le tombe e, terrorizzati, fossero tornati a casa a gambe levate (si trattava in verità di pezzuole appese alle croci da qualche mattacchione che, agitate dal vento, imitavano l’ondeggiare dei fantasmi). Altri giuravano di aver visto un teschio sotto un cipresso (che altro non era se non una zucca traforata con al dentro un lumino acceso) e tanti altri aneddoti venivano raccontati nelle sere di novembre, il mese dei defunti, quando le famiglie intere si radunavano nelle stalle a recitare il rosario, a cui si univano sovente vicini e conoscenti.
Fra i tanti racconti ascoltati da bambina uno mi aveva particolarmente impressionata.
Era un fatto narrato da un vecchietto nostro vicino di casa che, sovente, trascorreva la serata con noi nella stalla, ed era successo al tempo della sua gioventù quando abitava nei pressi di Aqui Terme.
…Quell’anno, la sera del giorno dei morti cadeva di sabato: un gruppetto di giovanotti come imponeva il costume, si trovava con altre persone nella grande stalla di un cascinale fuori dal paese con il cimitero a poca distanza. Avevano recitato il rosario tutti insieme ed avevano mangiato le castagne, ma la serata era ancora lunga da passare là dentro, priva della compagnia di altri amici con cui abitualmente si divertivano in quelle ore prefestive. Nella stalla fra i presenti si trovavano anche delle ragazze con le loro madri, sedute in un gruppo a parte com’era in uso tanti anni fa quando le donne trascorrevano la sera con la rocca ed il fuso in mano a filare la canapa per tessere la tela.
Trascorso un po’ di tempo i giovanotti si avvicinarono alle donne rivolgendo loro qualche parola seguita poi dallo scambio di opinioni sulla serata a cui le ragazze risposero punzecchiandoli sulla loro mancanza di coraggio, ed iniziò così un gioco di battute ed allusioni sulla paura dei morti e sui i fantasmi vaganti nei cimiteri in quella notte.
“Bene – intervenne una ragazza grande e grossa che stava nel gruppo – facciamo una scommessa: cinque lire a chi a mezzanotte entra da solo nel cimitero”.
Nessuno rispose né si fece avanti.
“Allora ci vado io, ma fuori i soldi” continuò sicura la giovane.
Quella ragazza a l’era in masciùn (era un maschione) raccontava il vecchietto; robusta e forte lavorava al pari degli uomini e non esitava a caricarsi un sacco pieno di grano sulle spalle.
“Ma ci devi dare la prova che ci sei stata davvero – puntualizzò un altro giovanotto – piantando il fuso sopra una tomba in fondo al cimitero, ed usando un martello” concluse un altro.
La ragazza acconsentì decisa, incurante dei rimproveri e degli ammonimenti delle donne anziane che rimarcavano come non portassero bene le scommesse fatte sui morti e su tutto ciò che riguardava i cimiteri.
Aspettarono i rintocchi della mezzanotte, poi tutto il gruppo dei giovani uscì accompagnandola fino all’inizio del viale che conduceva al cimitero, assicurando che l’avrebbero aspettata sulla strada. Con il fuso ed il martello in mano la giovane si inoltrò nell’oscurità rischiarata a tratti solo dal biancheggiare delle lapidi. I compagni sullo stradale sentirono il cigolare del cancello che si apriva, poi, per qualche secondo più nulla finchè un grido li fece sobbalzare. Aspettarono ancora qualche istante nel più profondo silenzio quindi la chiamarono e non ottenendo risposta tutti insieme corsero a vedere. Al lume di qualche cerino la trovarono accanto ad una tomba riversa a terra: la chiamarono di nuovo, ma lei non rispondeva. Allora la sollevarono e sentendo che qualcosa la tratteneva da una parte, capirono subito cosa era successo.
Nella fretta e con un bel po’ di tremarella addosso, la ragazza si era accucciata senza badare all’ampia gonna che si era allargata a cerchio e, senza accorgersi, le aveva piantato sopra la punta del fuso facendolo penetrare bene nel terreno con il martello. Nel momento in cui si era alzata ed aveva allungato il piede compiendo il primo passo per allontanarsi, si era sentita trattenere come se qualcuno l’avesse afferrata. Terrorizzata stante il buio ed il luogo aveva lanciato un urlo ed era svenuta e quando rinvenne, quel gigante di ragazza non era più lei, continuava l’anziano conoscente: rimase ammalata per qualche tempo, poi morì.
Tutto il paese fu sconvolto da quel fatto e la notizia si sparse anche nei territori limitrofi. Di quella tragica bravata si parlò per lungo tempo suscitando i più svariati commenti che, come monito, finivano sempre con la stessa frase: “Si può scherzare con i vivi, mai con i morti!”