AL DI’ DI SANT – Il giorno dei santi

Tra qualche giorno inizia il lungo ponte  di Ognissanti e per questo  oggi vogliamo regalarvi la parole di Luigina Zai, la nonna dell’attuale proprietario de La Cà Nova, Marco Bellero. Il testo che segue, tratto dal libro “Piemonte nel cuore e nella memoria”, è un po’ lungo per la blogosfera, ma se avete 10 minuti di tempo leggetelo, è davvero molto bello e avvincente. Buona lettura e buon ponte!

Autunno in Monferrato

Autunno in Monferrato

AL DI’ DI SANT – Il giorno dei santi

Novembre è il mese che più di ogni altro riporta la memoria ai nostri morti con le visite ai cimiteri, luoghi densi di rimembranze e con un pensiero al cielo, che si fa ricordo e mistero.

Sono andata per la prima volta al piccolo cimitero del paese all’età di sei anni, quando ho iniziato a frequentare la prima elementare: incominciare la scuola per i bambini di un tempo lontano significava incontrare e conoscere il mondo esistente oltre la casa o cascina, luoghi che avevano custodito e protetto, fino ad allora, la propria infanzia.

Ottobre finiva in un tiepido pomeriggio di sole; l’indomani, giorno di vacanza, era il primo di Novembre, al dì di Sant. A quei tempi uscivamo da scuola alle quattro pomeridiane, non c’erano campanelli ad annunciare la fine delle lezioni ma solo le parole della maestra che, dopo uno sguardo all’orologio, ordinava: “Ritirate i quaderni”; poi in piedi per la preghiera ed il canto finale.

Il sole era ancora alto nel cielo ed io e mia cugina, come d’abitudine, corremmo accanto ai fratelli che avevano il compito di rimanerci vicini ad ogni ritorno, ma non tornammo subito a casa quel giorno, perché era il periodo per andare al cimitero a vedere rangià i mort (aggiustare le tombe ).

Ancora piccole ed intimidite per i pochi giorni di frequenza scolastica, seguivamo il gruppo dei più grandi che, spensierati, chiacchieravano fra di loro e mi sentivo anche un po’ impaurita al pensiero di cosa avrei potuto vedere perché la parola cimitero collegata ai morti mi procurava sempre un po’ di ansia e di disagio.

Arrivati al cancello del camposanto il sorridente gruppetto di scolari si fece serio; mio fratello con il cugino Prospero nel varcarlo si tolsero il berretto e, memori degli insegnamenti e delle raccomandazioni dei familiari al fine di portare un grande rispetto per quel luogo, si inoltrarono parlando a bassa voce. Noi seguivamo i più grandi mentre si aggiravano disinvolti e sicuri fra le lapidi e le croci piantate a terra ed osservavamo le persone intente ad ordinare e ornare le tombe dei loro defunti; ma ciò che più mi colpiva era l’odore acre emanato dai crisantemi, così forte da pervadere tutto quel luogo e da farmi pensare che fosse l’odore dei morti.

I crisantemi dei miei tempi dai piccoli fiori con tenui colori che si chiamavano al fiu di Sant ( i fiori dei Santi ), hanno poco o nulla in comune con quelli dei nostri giorni, nemmeno l’intenso profumo. Oggi i crisantemi grazie ad incroci e selezioni sono diventati fiori elaborati nelle forme e nei colori, a volte talmente grandi da sembrare dei palloncini: coltivati in vasi o nelle ciotole si trasformano in enormi, variopinte composizioni.

Da bambina quando visitavamo i cimiteri nei giorni dei Santi osservavo stupita le tante persone arrivare con fasci di quei semplici fiori dall’odore penetrante, cresciuti a cespugli al limitare degli orti. Allora le tombe in muratura erano rare e costruite con le facciate a forma di chiesetta o di tempietto, chiuse da pesanti cancelli in ferro e con un piccolo altare all’interno; le loro scure vetrate ricoprivano con un velo di penombra le piccole lapidi anch’esse di marmo scuro su cui erano incisi i nomi dei propri cari, a ricordarne la memoria in un alone di mestizia.

Essendo poche le tombe vere e proprie, il terreno al centro del cimitero era cosparso di lapidi e croci testimoni delle tante sepolture avvenute nel corso degli anni: là, in quei giorni, le persone ripulivano le zolle dalle erbe cresciute indisturbate nel corso dei mesi zappettando il loro piccolo quadrato di terra.

Noi scolari giravamo fra quegli spazi che sembravano essersi trasformatati in aiuole fiorite e vedevamo arrivare le donne con in testa fazzoletti ed indosso abiti scuri, mentre qualcuna con il volto mesto si asciugava gli occhi accostandosi ad una piccola tomba. Che fosse quello il luogo del dolore l’ho capito per la prima volta vedendo una bambina del gruppo, ma di un’altra classe, dirigersi ad una croce e fermarsi piangendo in silenzio. Noi un po’ distanziati ed immobili osservavamo le sue lacrime cadere su un mazzetto di fiori ai piedi del legno su cui erano incisi un nome ed una data: ma io non sapevo ancora leggere. Da quel pianto sommesso e quasi rassegnato un’altra compagna, forse una vicina di casa, la distolse e prendendola per mano le mormorò di andare a casa, quindi da sole si avviarono al cancello di uscita. I Più grandi del gruppo ci informarono poi che la bambina, una forestiera, era giunta in paese l’anno prima con la mamma già ammalata ed in seguito deceduta. Nessuno di noi seppe dirle una parola di coraggio od offrirle un abbraccio di conforto; forse eravamo troppo piccoli per manifestare i nostri sentimenti o non avevamo ancora imparato a condividere il dolore. Rammento solo di essermi sentita stringere il cuore per quello che avevo visto e saputo, e provavo profonda tristezza per la scolara che non aveva più la mamma a cui correre incontro per raccontarle qualunque avvenimento del giorno, anche solo di aver perso un bottone, rotto le calze o preso un bel voto come facevo io con la mia. Per lei l’ala protettrice della mamma non c’era più, rimaneva solo quella croce a ricordare la sua presenza di un tempo.

Mio fratello visitando il camposanto si soffermava sempre, e noi dietro di lui, ad osservare le persone che con tanta pazienza e vera maestria adornavano le tombe dei loro sepolti. Giungevano donne con grandi involti di quei fiori che nulla costavano e ne staccavano uno ad uno il fiore dal gambo, poi si chinavano sul piccolo rettangolo di terra fresca e pulita ed in base alla quantità disponibile ricoprivano il terreno trasformandolo in un tappeto colorato, oppure ne delimitavano solo il contorno disegnando una croce al centro o un grande cuore riempito dei rossi, cupi crisantemi dei miei tempi. Sempre Vincenzo ci faceva notare gli ornamenti più belli traducendoci le grandi parole che qualcuno con i fiori aveva composto sulla nuda terra: PAX e REQUIEM.

Fra i ricordi di quei lontani giorni dedicati ai morti e così diversi dagli attuali, uno mi ha sempre accompagnato con tanta tristezza. Ero già grandicella, giunta quasi alla fine della scuola e quel pomeriggio della vigilia di ognissanti, come al solito, facevamo in gruppo il giro del camposanto. Diverse persone si attardavano ancora ad ornare le loro tombe fra le quali una mi colpì in modo particolare: era un quadratino di terra con a capo una piccola croce bianca dove un bambino di nove o dieci anni stava disegnando un angioletto con le corolle di crisantemi bianchi che la mamma, tenendo nel grembiule, gli passava uno ad uno. Noi sapevamo della morte di un bimbo mancato pochi mesi prima, e vedevamo il dolore sul volto della donna la quale, a capo chino senza volgere lo sguardo ad alcuno e senza parole, porgeva i fiori al figlio che da piccolo artista si cimentava a raffigurare in quell’angelo bianco il fratellino sotto sepolto. Quando l’ebbe terminato cinse come in una cornice il piccolo quadrato con gli stessi crisantemi, quasi a proteggere quella testina bianca che sormontava due candide ali incrociate. Prima di allontanarsi mamma e figlio rimasero qualche momento ad osservare la piccola tomba, poi ella con la mano mandò un bacio verso quell’angelo a terra lasciandovi ancora cadere qualche lacrima, quindi mesti e muti si avviarono al cancello. Anche a noi era passata la voglia di parlare e tutte avevamo gli occhi lucidi dinnanzi alla visione della morte di un bambino.

Ai tempi della mia infanzia la festività dei Santi insieme con il giorno dedicato ai morti erano molto sentiti. La famiglia prima, e le maestre dopo, ci insegnavano e ci inculcavano  il rispetto per quel sacro luogo raccomandandoci di conservare sempre la memoria verso i nostri defunti, e per questo in quella ricorrenza ci facevano studiare le poesie dedicate da tanti poeti ai morti: fra tutte rammento in particolare le liriche del Pascoli pervase di tristezza e di dolcezza insieme.

Ai primi di novembre ricorreva anche l’anniversario della guerra del 1915 – 18 e le nostre insegnanti portavano le scolaresche al monumento dei caduti ed anche al cimitero; poi, tornati in classe oltre al commento ci facevano svolgere temi e disegni sull’argomento, e penso che per noi della vecchia generazione la scuola di allora ha contribuito a conservare profondamente il senso della memoria.

In chiesa si pregava e si commemoravano i defunti con celebrazioni di fede e di speranza nella vita eterna ed era usanza nel pomeriggio della festività andare in processione al camposanto, luogo in quella circostanza ordinato, pulito e pieno di gente che, a gruppi con famiglia e parenti, sostavano durante le funzioni del sacerdote accanto ai loro cari. Non c’erano fiori sgargianti o i lucidi marmi del giorno d’oggi ma anche sopra le antiche ed abbandonate tombe qualcuno depositava sulle croci arrugginite o sulle lapidi spezzate un fiore, ed ognuna aveva un lumicino acceso con qualcuno inginocchiato a pregare.

Una consuetudine ormai scomparsa, era quella di portare in quel giorno i ritratti dei propri morti: grandi, di forma quadrata od ovale, racchiusi in nere cornici ed esposte sugli altarini dei sepolcri o dinnanzi alle lapidi per terra, se c’era bel tempo, e noi bambini ci fermavamo a guardare e a domandare chi fossero. Oggi invece ogni lapide porta infisso il ritratto del defunto racchiuso dentro una minuta lucida cornice, continuativamente.

Forse, per le famiglie vedere esposta la fotografia dei propri congiunti dava l’impressione di un loro ritorno, soprattutto se i ritratti erano di giovani soldati che riposavano in cimiteri lontani o tornati in una bara. Anche a casa mia c’era un grande quadro con la fotografia del fratello di mio padre, zio Cesare, vestito con la giubba da soldato che ogni anno veniva portato al cimitero.

La granda, sua madre nonché mia nonna, aveva ottenuto il rientro del figlio caduto in guerra ed aveva, con gli altri figli rimasti, fatto costruire la tomba nel nostro cimitero. Era andata proprio lei nel camposanto della città per scegliere fra le tante costruzioni quella che le sembrava più idonea da usare come modello: un tempietto con due colonne ai lati e sul frontespizio un angelo di pietra ad ali spiegate. Ma una volta finita non volle mai andarla a vedere perché, affermava, di lì a poco l’avrebbe vista per sempre.

Essendo molto anziana nonna Prospera non usciva più di casa però, finchè visse, fu sempre attenta a nulla tralasciare in quei giorni dedicati alla memoria dei defunti raccomandandoci per il futuro di non trascurare la tomba di famiglia e di mantenerla sempre in ordine evitando i fiori dai colori troppo vistosi: trasmettevano sentimenti di festa per i vivi, ma non per coloro che non c’erano più.

In fondo all’orto ed in disparte forse per quell’odore acre e pungente, la granda coltivava due grossi cespugli di crisantemi, uno di colore bianco e l’altro violaceo che ogni anno si ricoprivano di una semplice, naturale ma copiosa fioritura. Nel giorno dei Santi due mazzetti bianchi venivano posti sull’altarino per le sue bambine morte, mentre al centro del pavimento fra due lumini, un vaso di fiori viola ricordava tutti gli altri familiari defunti.

Attualmente in un mondo in cui tutto è cambiato anche la ricorrenza dei santi non è più vissuta con i sentimenti di una volta, ed anche l’aspetto dei cimiteri è mutato. Accanto alle antiche, scure tombe che sembravano piccole chiese per i tanti fregi religiosi, sorgono costruzioni moderne dalle forme lineari, ricoperte di pregiati marmi, con vetri di cristallo trasparenti ed iscrizioni di lucido metallo sulle pareti. Ma ciò che più sconcerta noi anziani è la mancanza di quel clima di serietà, quasi di mestizia che si respirava una volta. Con la profusione di fiori di ogni forma e sfumatura che riempiono gli spazi e ricoprono le tombe, con l’avvento di enormi composizioni e grandi mazzi ornati da nastri e nodi colorati, regna nell’atmosfera e si riscontra nel comportamento di tante  persone un clima più di festa che di afflizione.

Le piazze ed i parcheggi straripano di macchine e di gente che in poco tempo si spostano da un luogo all’altro; parenti e conoscenti si incontrano e si fermano a parlare e a chiacchierare, a guardare e a commentare più che a ricordare, e sempre meno c è chi si in ginocchia a pregare.

A cancellare la poca tradizione rimasta, ad allentare nei giovani il ricordo ed il senso di rispetto per le festività dei defunti tanto radicate in tutti noi nel passato, giungono dall’America altre usanze, altre forme di celebrazioni che nulla hanno in comune con le nostre, e che urtano la sensibilità dell’anziano. Festeggiare Hallowe’en con comportamenti e maschere stravaganti in quella notte che per noi era di ricordo e di preghiera, mi fa pensare ad un anticipo di macabro quanto inopportuno carnevale !

Dietro l’alta collina il sole tramontava allungando un’ombra scura sul cimitero che silenziosamente si svuotava: la funzione era finita, la gente tornava alle proprie case e nella sera che scendeva, mesti rintocchi di campane ci ricordavano che l’indomani era il giorno dei morti. La tradizione di allora richiedeva tutta la famiglia riunita alla sera per la recita del rosario, e nessuno, giovane od anziano che fosse, doveva uscire per le strade perché vigeva la credenza che in quella notte i morti tornassero a rivisitare le loro case.

Ricordare le festività dei Santi vissute nell’infanzia con la presenza della granda figura per noi centrale, rammentare quelle sere ricche di particolare fascino per i racconti di memorie antiche, ancora adesso mi commuove. Sotto la cappa del camino il fuoco era ben acceso e dentro la grossa pentola le castagne bollivano adagio; la cena era finita e la granda che solitamente si alzava per prima per salire alla sua stanza, quella volta si dirigeva alla stalla. Prima però si rivolgeva alle nuore già intente a sparecchiare raccomandando loro di mettere a bagno i ceci ed il merluzzo per l’indomani, perché il giorno dei morti era di magro con la zuppa di ceci a pranzo e pulenta e marlüc (polenta e merluzzo) alla sera. Poi uno sguardo alla tavolata e due parole: andumma fiöi,(andiamo ragazzi) e tutti la seguivano. Intorno al tavolo, nella stalla, erano poste alcune sedie: lei ne prendeva una e girando lo schienale vi si appoggiava con accanto noi bambine e le nostre madri; dietro gli uomini ed i ragazzi inginocchiati sulle balle di paglia. Prima di iniziare il rosario la nonna prendeva dalle sue tasche delle vecchie coroncine fatte con grani di semi o di legno lavorato che ancora mi sono impresse nella mente e che il cuore rimpiange di non avere conservate. Ne distribuiva una a tutte noi a cui bastava averle fra le mani ed anche senza sapere far scorrere quelle noccioline, rispondevamo tutti in coro al suo sgranare di Ave Maria.

Non era mai lungo il suo rosario: un giro della grossa corona ed alla fine, quasi a farli ancora sentire presenti in mezzo a noi, qualche requiem in più per al povar Cesar (il povero Cesare, il figlio caduto) e per al povar grand (il nonno ), suo marito. All’ultimo amen i ragazzi più grandi correvano al camino e, staccata dal gancio la pentola piena di castagne, le colavano in un grande catino di terracotta, di quelli smaltati a chiazze verdi e gialle che si usavano allora e fumanti le portavano al tavolo della stalla. Eravamo dieci bambini e cinque adulti e non tutti erano ugualmente svelti nel prendere e mangiare, così ella per amor di giustizia desiderava che le castagne venissero ripartite. Andavamo allora in cucina a prendere ognuno il piatto di ferro smaltato di grigio usato giornalmente dove i maschietti, passando con il grosso recipiente pieno, ne depositavano una per volta a ciascuno finchè il catino rimaneva vuoto.

I piatti erano pieni anche quello della granda, però lei non mangiava; dopo averne assaggiata una o due si alzava e con il suo recipiente in mano ci dava la buonanotte aggiungendo: “Queste le metto sopra l’arca, sono per i miei morti”. L’arca era la madia su cui si impastava il pane, posta sotto la finestra della cucina ed ella continuava l’usanza di lasciare, in quella notte, un piatto per i morti. Mangiavamo adagio le castagne rimanendo quieti, poi restavamo ancora un poco ad ascoltare gli adulti che parlavano fra di loro con tono sommesso ricordando le persone ed i fatti dei tempi passati. Poco dopo le mamme rivolgendosi a noi della scuola ci rammentavano che il giorno successivo anche se era vacanza ci dovevamo alzare presto per andare in chiesa, e ci mandavano a dormire.

Ma l’indomani a svegliarci di buon’ora erano per prime le campane che, riempiendo l’aria con gravi e mesti rintocchi, annunciavano le funzioni per i morti. Le mamme allora entravano nelle stanze per farci velocemente alzare perché, dicevano, dovevano rifare bene i letti quel mattino per accogliere le anime dei morti che sarebbero ancora ritornate nelle loro case a riposare.

Quando pioveva la chiesa era frequentata da molta gente, ma con il bel tempo ci si ritrovava solo noi bambini insieme con gli anziani in quanto gli altri familiari dovevano occuparsi delle semine essendone quello il periodo, ed il giorno dei morti diventava lavorativo. Tutto era lugubre in chiesa in quella circostanza: i paramenti profilati di nero, il catafalco steso in mezzo alla navata e ricoperto da un nero drappo frangiato e circondato da candele, i canti invocanti il riposo eterno, le prediche che invitavano alla riflessione ed alla meditazione sulla brevità della vita. Ma se le funzioni di questo giorno con i continui richiami alla morte mi riempivano di tristezza, mi hanno anche inculcato un profondo rispetto per il sacro, ed una riverente accettazione del mistero dell’aldilà.

La sera del due novembre era ancora dedicata alla preghiera ed alla memoria e per la seconda volta in ossequio alla tradizione non si doveva uscire, perché tanti erano i racconti di fatti strani e paurosi che in quella notte succedevano, soprattutto a scapito dei trasgressori. Anche allora però la gioventù non sempre resisteva al richiamo di qualche divertimento ed i più spavaldi o noncuranti delle usanze uscivano ugualmente dalle case, magari fra il biasimo dei familiari e dei benpensanti. Ed allora intervenivano i soliti burloni che si divertivano a spaventarli e, per dare una lezione alla loro mancanza di riguardo, organizzavano brutti scherzi trasformati poi dala fantasia popolare in avvenimenti inverosimili.

In casa sentivo raccontare come alcuni i giovani nella sera dei morti passando davanti al cimitero avessero visto bianche figure aggirarsi fra le tombe e, terrorizzati, fossero tornati a casa a gambe levate (si trattava in verità di pezzuole appese alle croci da qualche mattacchione che, agitate dal vento, imitavano l’ondeggiare dei fantasmi). Altri giuravano di aver visto un teschio sotto un cipresso (che altro non era se non una zucca traforata con al dentro un lumino acceso) e tanti altri aneddoti venivano raccontati nelle sere di novembre, il mese dei defunti, quando le famiglie intere si radunavano nelle stalle a recitare il rosario, a cui si univano sovente vicini e conoscenti.

Fra i tanti racconti ascoltati da bambina uno mi aveva particolarmente impressionata.

Era un fatto narrato da un vecchietto nostro vicino di casa che, sovente, trascorreva la serata con noi nella stalla, ed era successo al tempo della sua gioventù quando abitava nei pressi di Aqui Terme.

…Quell’anno, la sera del giorno dei morti cadeva di sabato: un gruppetto di giovanotti come imponeva il costume, si trovava con altre persone nella grande stalla di un cascinale fuori dal paese con il cimitero a poca distanza. Avevano recitato il rosario tutti insieme ed avevano mangiato le castagne, ma la serata era ancora lunga da passare là dentro, priva della compagnia di altri amici con cui abitualmente si divertivano in quelle ore prefestive. Nella stalla fra i presenti si trovavano anche delle ragazze con le loro madri, sedute in un gruppo a parte com’era in uso tanti anni fa quando le donne trascorrevano la sera con la rocca ed il fuso in mano a filare la canapa per tessere la tela.

Trascorso un po’ di tempo i giovanotti si avvicinarono alle donne rivolgendo loro qualche parola seguita poi dallo scambio di opinioni sulla serata a cui le ragazze risposero punzecchiandoli sulla loro mancanza di coraggio, ed iniziò così un gioco di battute ed allusioni sulla paura dei morti e sui i fantasmi vaganti nei cimiteri in quella notte.

“Bene – intervenne una ragazza grande e grossa che stava nel gruppo – facciamo una scommessa: cinque lire a chi a mezzanotte entra da solo nel cimitero”.

Nessuno rispose né si fece avanti.

“Allora ci vado io, ma fuori i soldi” continuò sicura la giovane.

Quella ragazza a l’era in masciùn (era un maschione) raccontava il vecchietto; robusta e forte lavorava al pari degli uomini e non esitava a caricarsi un sacco pieno di grano sulle spalle.

“Ma ci devi dare la prova che ci sei stata davvero – puntualizzò un altro giovanotto – piantando il fuso sopra una tomba in fondo al cimitero, ed usando un martello” concluse un altro.

La ragazza acconsentì decisa, incurante dei rimproveri e degli ammonimenti delle donne anziane che rimarcavano come non portassero bene le scommesse fatte sui morti e su tutto ciò che riguardava i cimiteri.

Aspettarono i rintocchi della mezzanotte, poi tutto il gruppo dei giovani uscì accompagnandola fino all’inizio del viale che conduceva al cimitero, assicurando che l’avrebbero aspettata sulla strada. Con il fuso ed il martello in mano la giovane si inoltrò nell’oscurità rischiarata a tratti solo dal biancheggiare delle lapidi. I compagni sullo stradale sentirono il cigolare del cancello che si apriva, poi, per qualche secondo più nulla finchè un grido li fece sobbalzare. Aspettarono ancora qualche istante nel più profondo silenzio quindi la chiamarono e non ottenendo risposta tutti insieme corsero a vedere. Al lume di qualche cerino la trovarono accanto ad una tomba riversa a terra: la chiamarono di nuovo, ma lei non rispondeva. Allora la sollevarono e sentendo che qualcosa la tratteneva da una parte, capirono subito cosa era successo.

Nella fretta e con un bel po’ di tremarella addosso, la ragazza si era accucciata senza badare all’ampia gonna che si era allargata a cerchio e, senza accorgersi, le aveva piantato sopra la punta del fuso facendolo penetrare bene nel terreno con il martello. Nel momento in cui si era alzata ed aveva allungato il piede compiendo il primo passo per allontanarsi, si era sentita trattenere come se qualcuno l’avesse afferrata. Terrorizzata stante il buio ed il luogo aveva lanciato un urlo ed era svenuta e quando rinvenne, quel gigante di ragazza non era più lei, continuava l’anziano conoscente: rimase ammalata per qualche tempo, poi morì.

Tutto il paese fu sconvolto da quel fatto e la notizia si sparse anche nei territori limitrofi. Di quella tragica bravata si parlò per lungo tempo suscitando i più svariati commenti che, come monito, finivano sempre con la stessa frase: “Si può scherzare con i vivi, mai con i morti!”

LA VANDÙMIA

La vigna di Rosignano poco prima della Vendemmia 2013

La vigna di Rosignano poco prima della Vendemmia 2013

Luigina Zai è la nonna dell’attuale proprietario de La Cà Nova, Marco Bellero. Nata nel 1925, ha dedicato tutta la sua vita alla terra in cui è nata, il Monferrato, e per la quale ha lavorato come contadina per tantissimo tempo. Da qualche anno a questa parte la signora Luigina sta cercando di mantenere vive le tradizioni che da sempre hanno caratterizzato lei e i monferrini, si è dedicata infatti alla scrittura di alcuni volumi che raccontano la vita di una volta. Vi parleremo più avanti di queste perle di storia che Luigina ha scritto raccontandovi in modo approfondito tutti i suoi libri, oggi invece vogliamo regalarvi uno dei suoi racconti più belli e significativi contenuti nel volume “Piemonte nel cuore e nella memoria”, che ben racconta il periodo che stiamo vivendo in vigna: “La Vandùmia”, la vendemmia. E’ un brano un po’ lungo, ma se avete 10 minuti di tempo vale davvero la pena leggerlo, Buona lettura!! 

LA VANDÙMIA

 Com’era un tempo la vendemmia?

Che fosse un periodo di lavoro e di festa insieme, me lo rammenta la strofa di una poesia trovata tanti anni fa tra le pagine di un libro di cui ancora ricordo qualcosa: …E s’ode insieme una schiera / di donne cantelinare / nel breve cielo che pare, / un cielo di primavera…

Un tale esempio di vendemmia oggi ha il sapore di una fiaba, ma è proprio questa che rimpiango perché queste semplici rime sono state capaci di ridestare nella memoria e nel cuore immagini che, pur lontane nel tempo, sono tuttora vive.

Attualmente la raccolta dell’uva, problema squisitamente tecnico ed economico da risolvere, viene fatta con grosse macchine che passano tra i filari dei vigneti alla stregua delle mietitrebbie nei campi di frumento e di mais. Non c’è più la gioia dei tralci, altre parole che mi tornano da quella poesia, ancor meno si vedono rider gli sguardi esultanti o si sentono gli accenti sonori delle più gaie canzoni.

Nella vendemmia attuale, di tutti questi bei ricordi e della tradizione contadina è rimasto ben poco, forse qualche consuetudine sopravvive ancora in alcune aziende familiari. Invece dell’eco lontana della schiera di donne che cantano, sentiamo i ripetuti e a volte assordanti rumori dei trattori con lucidi rimorchi che lasciano scie di fumo nell’aria e, in ogni caso, il lavoro viene svolto sempre con meno personale e con tanta fretta.

Dopo aver faticato per più di sette mesi ed essere stati in apprensione ogni volta che nere nubi si addensavano in cielo, finalmente arrivava la sospirata data del raccolto più importante dell’annata agricola: la vendemmia. La coltivazione della vite è la coltura che più di ogni altra richiede impegno continuo. Si iniziava con la potatura per scegliere al teis, il tralcio portatore dei nuovi frutti e contemporaneamente si toglievano i sarmenti ormai inutili (spuasà). Al primo filo di ferro, con rametti di salice veniva legato il tralcio dalle cui turgide gemme si sviluppavano i brembu, i germogli: mano a mano andavano ad allungarsi, le donne, con le foglie di canna essiccata racchiuse a fasci negli ampi grembiali li legavano gradualmente agli altri tre fili che, posti in parallelo ed equidistanti, correvano lungo tutto il filare. Erano questi i lavori da eseguirsi obbligatoriamente nei tempi stabiliti e unicamente con le mani.

La fioritura era ed è il periodo più importante e più delicato della vegetazione della vite, durante la quale ci si dedicava con tanta fatica, intelligenza e passione. Si procedeva alla spampanatura detta anche potatura verde (sgarsulà) consistente nel togliere ad ogni pè d’vi pianta di vite, i pampini passivi onde permettere alla vite di acquisire maggior vigore a vantaggio di una più consistente e rigogliosa fioritura. Si continuava poi controllando il continuo germogliare (andrisà e fa sü) e togliendo i numerosi arbüt cioè i succhioni privi di frutto ed ingombranti.

Questo lavoro fatto quasi esclusivamente dalle donne, oggi, per mancanza di manodopera o perché nessuno vuol più fare lo eseguono le cimatrici, macchine che, non essendo in grado di raddrizzare né di compiere la cernita dei germogli passivi, passano a livellare il tutto, straziando la vegetazione con delle lame di ferro e producendo sicuramente sofferenza alla vite. Ma ancor di più la procurano al cuore degli anziani i quali ai loro tempi mai avrebbero compiuto simili mutilazioni lungo i filari ed io, che faccio parte di quel passato, ricordo come al rompersi di un lungo germoglio con i piccoli grappoli attaccati, mia madre con infinita cura ce li faceva misinà (medicare), ovvero fasciare con dei fili d’erba affinché la linfa continuasse a scorrere ed il tralcio a vivere.

Sotto il filare il terreno veniva tenuto pulito e dissodato con la zappa o con al bèiar la vanga, facendo attenzione al ceppo della vite perché restasse libero dalle erbacce estirpate anche con le mani. Anche questo lavoro oggi è eseguito dalle macchine ma non c’è confronto con l’operato di una volta, teso a mantenere liscio e pianeggiante il terreno. Le moderne zappatrici dotate di un apposito congegno scavano la terra attorno al ceppo per ripulirlo, producendo piccole buche che fanno scivolare il terreno verso il basso inasprendo vigne e colline.

In agosto l’uva incominciava ad anvarà (colorire), gli acini scurivano e finiva il trattamento contro la peronospora a base di solfato di rame al verdaràm, spruzzato con la macchina irroratrice portata sulle spalle, dal peso di venticinque – trenta chilogrammi e le vigne si tingevano color blu come il cielo. Quando dall’alto del filare fuoriuscivano i lunghi e tardivi germogli si passava a scuarà cioè a tagliargli cun l’amsurìn il falcetto e, se a settembre pioveva molto, si andava lungo i filari a sbuscà (disboscare), a togliere con i forbicioni le foglie in basso attorno all’uva perché entrando più aria e sole, si impedisse all’umidità di far marcire o ammuffire l’uva. Verso la fine di settembre con i grappoli tutti colorati e nell’attesa della completa maturazione, si preparava l’attrezzatura per la raccolta. Nella cantina venivano lavate e rinfrescate al vasèli le botti in legno (e successivamente in cemento) unitamente ai mastelli e secchielli; sui carri si sistemavano i’arbi, le bigonce utilizzate per il trasporto del raccolto fatto con i buoi o con i cavalli.

Ai miei tempi di solito la vendemmia iniziava ai primi di ottobre e continuava per due o tre settimane: era un lavoro festoso con le colline gremite di persone che recidevano i grappoli e, tra una conversazione e l’altra, scherzavano con motti arguti mentre i canti delle donne rimbalzando con naturalezza di collina in collina diffondevano ovunque allegria. La sera i carri con le bigonce colme di uva sostavano sulle aie nell’attesa di venire pigiate dagli uomini che, vigorosamente e a piedi nudi, riducevano i grappoli in mosto versato poi nella brenta e portato a spalle nelle botti in cantina. Intanto per tutta la casa e lungo le strade si diffondeva un odore particolare: era l’afrore dell’uva pigiata, anticipo del buon vino.

Oggi tutto questo in tante cascine dei nostri paesi non si verifica più: le uve raccolte vengono velocemente portate con i trattori alle cantine sociali, le quali, simili a grandi fabbriche fornite dei più sofisticati macchinari, trattano il raccolto sotto il controllo di enologi e basandosi su nuovi metodi di fermentazione e di lavorazione immettono poi sul mercato i loro prodotti in bottiglie dalle lucide etichette con il nome delle pregiate uve da cui provengono.

Se il progresso ha ridotto di molto la fatica del contadino, ha però portato via dalla sua vita il senso della festa di una volta, della poesia della vendemmia e del piacere della buona compagnia: ciò che si è vissuto e che nel contempo si è amato è una gioia ricordare perché non si vive senza passato.

Avevamo dieci anni io e mia cugina il mattino di una vendemmia di tanti anni fa quando, singhiozzando ai piedi del camino, non volevamo andare a scuola ma a vendemmiare. I familiari erano perplessi di fronte alla nostra insistenza perché la scuola era d’obbligo e non ci si poteva assentare senza chiedere il permesso alla maestra. D’altro canto credevano alla nostra buona volontà essendo noi in casa ubbidienti nel fare e nell’eseguire ciò che abitualmente ci veniva richiesto, valutando anche, come un poco di aiuto in più servisse sempre durante quel raccolto che doveva fare i conti con il maltempo. Mia madre vista la nostra determinazione, pensò di accompagnarci lei dalla maestra per informarla ed indossati in fretta i grembiulini ci dirigemmo, per fare più in fretta, verso la strada che l’anziana insegnante percorreva a piedi ogni mattino per recarsi a scuola. Appena incontrata, la mamma le chiese se poteva lasciarci a casa qualche giorno stante l’urgenza della vendemmia e la maestra, che conosceva bene la campagna con tutto ciò che comportava, fu comprensiva ed acconsentì; però, ritenendoci piccole per quel lavoro, si mostrò dubbiosa su quanto potevamo raccogliere e per quanto tempo resistere alla fatica. Raccomandò poi alla mamma, nel caso la nostra permanenza nelle vigne fosse stata una perdita di tempo per noi e per gli altri, di rimandarci subito a scuola: ma non ce n’è fu bisogno, né allora né in anni successivi nei giorni in cui restavamo a casa per andare a vendemmiare!

In quegli anni quando la scuola incominciava il primo ottobre, iniziava contemporaneamente anche raccolta dell’uva e, da giovani, quel periodo non l’abbiamo mai voluto perdere perché lo sentivamo non faticoso, ma festoso. C’era già nell’aria alcuni giorni prima, un senso di attesa gioiosa perché dovevano arrivare al vandümieri le vendemmiatrici, ossia le donne che venivano da fuori a vendemmiare e che mio padre in anticipo era andato a prenotare per la vendemmia; i ragazzi invece che abitualmente lavoravano in cascina si informavano sulle lavoranti e speravano che fossero giovani e belle e, intanto, fervevano i preparativi. Si puliva e si sbiancava la cà dal’alsija (stanza del bucato) dove venivano sistemate le vendemmiatrici mentre nella stanza di sopra adibita a granaio, in quei giorni, si portavano le balle di paglia che, ben disfatta, serviva per il paiòn (pagliericcio), il letto per dormire. Con l’arrivo delle vandümiere il clima della vendemmia era tangibile: il cortile e la casa si animavano di tante persone, di ragazze sorridenti e socievoli che facevano subito amicizia con noi bambine. Di solito erano un gruppo di sei – otto donne con due o tre anziane che avevano il compito di sorvegliare le più giovani e che spesso provenivano dai paesi di pianura, ragazze non abituate alla campagna come si poteva vedere dalle loro mani bianche. In anni in cui non si andava in vacanza né in ferie, sceglievano di venire in collina a vendemmiare per cambiare aria e per mangiare uva a volontà ma, qualcuna, si trovava in difficoltà per il lavoro inusuale ed il mal di schiena e dopo qualche giorno tornava a casa. Le più forti e resistenti erano comunque le donne già abituate ai lavori dei campi, provenienti dai paesi in cui nell’estate si era purtroppo abbattuta la tempesta e che, non avendo più nulla da raccogliere, andavano a guadagnarsi qualcosa nei vigneti degli altri, risparmiati.

Mio padre le andava a prelevare con il cavallo ed il birroccio su cui caricavano i loro fagotti con dentro una coperta, il cuscino da mettere sulla paglia e qualche indumento di ricambio; sul carretto salivano le anziane mentre le giovani venivano a piedi anche da venti e più chilometri di distanza. Fra le tante ragazze che ho visto vendemmiare quando ero bambina, di alcune, ricordo ancora i volti sorridenti insieme alla volontà e all’instancabilità nel lavorare: giovani forti, dal fisico slanciato che non disdegnavano vuotare pesanti secchielli colmi di uva dall’alto della brenta portata a spalla dagli uomini, anch’essi giovani. Le loro grandi mani veloci nell’afferrare e staccare l’uva erano scure per la mancanza di guanti che nemmeno esistevano e le loro belle persone non conoscevano la ginnastica delle palestre ma solo il movimento del lavoro. Ricordo anche il loro parco mangiare: la famiglia offriva la minestra a mezzogiorno, la polenta alla sera ed il latte al mattino con il pane a volontà che mangiavano accompagnandolo sempre a grappoli d’uva per risparmiare il companatico, e portare a casa qualche lira in più.

Allora non c’era un orario da rispettare nel lavoro: si entrava nelle vigne a vendemmiare allo spuntare del sole e, dopo una breve pausa a mezzogiorno, si continuava fino al tramonto. Ma in quelle lunghe giornate passate con la schiena piegata, non si avvertiva la stanchezza soprattutto quando c’era il sole, la terra asciutta ed un abbondante raccolto perchè, ad alleviare ogni disagio, contribuiva sempre la buona compagnia, la conversazione ed i canti. Noi ci siamo affacciati alla vita proprio con la vendemmia ascoltando le prime canzoni nelle vigne ed al suono del grammofono sul quale si alternavano i pochi dischi portati dai giovanotti che venivano a trovare le giovani vandümiere. In una stanza da cui erano stati tolti il tavolo e le sedie ballavano poi la sera, e noi bambine, contente per quei momenti di piacevole novità, stavamo in un angolo ad ascoltare e a guardare, le donne anziane nell’altro a sorvegliare.

Un tempo gioioso e sereno mai dimenticato, come mai sono stati scordati i tempi tristi ed avversi delle annate in cui la grandine devastava i germogli e il maltempo la vendemmia in atto.

Quando durante l’estate si abbatteva la grandine sui vigneti, la vendemmia era sempre perduta ed anche se restava qualcosa, se rispuntava o si rimarginava a secondo del periodo in cui la tempesta aveva colpito, si raccoglieva quel poco con il cuore gonfio di pena ed il desiderio di fare presto per non vedere più un tanto scempio. In quelle tristi annate ci si aiutava fra parenti ed amici per non dover pagare del personale non avendo più alcun ricavo, e le giornate di quelle brevi vendemmie erano meste e silenziose: a sorreggerci c’era solo la speranza nel prossimo anno. Se l’estate era stata piovosa e se  continuava a piovere sia ad agosto che a settembre, si preannunciava un’annata grama, di quelle maledette per i contadini. L’uva marciva ed i grappoli si coprivano di muffa: bisognava raccoglierla anche se gli acini non erano del tutto maturi perché continuavano ad alternarsi giorni di pioggia mentre già si entrava nelle vigne a raccogliere. Allora veramente il lavoro diventava faticoso e pesante con gli uomini che si guardavano in faccia l’un l’altro imprecando e le donne che invocavano la clemenza dal cielo. La difficoltà maggiore si incontrava nel camminare sulla terra molle e nel trasporto delle bigonce sui carri, lungo le stradine fangose e scivolose. Gli scarponi che portavamo ai piedi diventavano pesanti blocchi di fango e sotto i secchielli si attaccava uno spesso strato di terra bagnata duplicandone il peso, ed anche gli indumenti zuppi d’umidità, pesavano. Ma alla nostra raddoppiata fatica si doveva aggiungere quella dei buoi il cui lavoro era, in quella circostanza, tanto più faticoso e rischioso.

Aveva piovuto tutta la notte ed al mattino sprazzi di sole si affacciavano attraverso le nuvole che si stavano diradando. Avevamo aspettato fin dopo mezzogiorno perché la terra ed i filari asciugassero un poco per poter scendere in fondo alla collina e continuare la vendemmia. Verso sera però, il cielo si era tinto di nuovo di scuro, presagio di altra pioggia ed allora si era cercato di riempire bene la bigoncia che era diventata stracolma. I buoi attaccati al timone faticavano a trascinare il carro verso la cima della collina e le grandi ruote cerchiate di ferro affondavano tagliando profondamente la terra melmosa della strada. Zio Giovanni, l’addetto alle bestie, stava davanti a guidare i buoi, gli altri uomini intorno ad incitarli perchè non riuscivano più a fare girare le ruote ed inarcavano la schiena piegandosi in avanti quasi ad inginocchiarsi nel tentativo di non retrocedere dietro al peso. Allora barba Giunin gridò alle donne di dare una mano e noi tutte, sapendo ciò che si doveva fare in quei frangenti, ci distribuimmo subito sia dietro sia ai lati del carro iniziando a spingere con tutte le nostre forze. Eravamo quattordici o quindici persone e, con quella forza aggiunta, i buoi passo dopo passo incominciarono a fare risalire il carro fino a raggiungere la sommità della collina, ma appena arrivati sentimmo lo zio urlare:

“Doni scapè, via, prestu, scapè”(donne scappate, via, veloci, scappate ).

Pochi secondi sufficienti per fare un balzo e scansare il carro che, da solo, aveva iniziato a retrocedere verso il fondo della stradina. Fortunatamente, lo zio aveva appena fatto in tempo a vedere la caviglia di ferro ben fissata dal timone entro il giogo piegarsi, e si era talmente piegata, da fare scivolare fuori il timone senza trascinare le bestie che si erano trovate ferme in mezzo al fango, mentre le ruote del carro prendevano sempre più velocità nella ripida discesa fino ad arrivare traballando in fondo, e la bigoncia rovesciarsi su un fianco. Una scena di dolore per il raccolto andato distrutto e di terrore per lo scampato pericolo che non ho più potuto dimenticare, come tanti altri casi simili che capitavano durante la vendemmia.

Raccogliemmo tutto il possibile, ma la perdita era stata grande: mia madre piangeva in silenzio, la sera era scesa cupa e mesta come se tutto fosse andato perduto mentre, fuori, ancora pioveva.

Al mattino però, ci eravamo alzati con il cielo terso ed il vento che spirava forte e al pomeriggio splendeva un sole caldo, così eravamo tornati alle vigne; le donne con le ragazze sulle colline avevano ripreso a cantare e barba Giuanìn, compiaciuto, accarezzando i buoi aveva detto che erano stati due leoni: avevano piegato il ferro ma, loro, non si erano piegati!